È possibile allenare il nostro cervello a vedere nuovi colori?
Per gli amanti del birdwatching che faticano a distinguere il maschio di cinciarella dalla femmina, la risposta si trova proprio qui. La cresta del maschio è in realtà ultravioletta per le altre cinciarelle, una differenza invisibile a noi esseri umani. Analogamente ad altri primati, la nostra vista possiede solo tre colori: rosso, verde e blu. Molti altri mammiferi ne vedono generalmente solo due (blu e verde), mentre gli uccelli hanno a disposizione una miscela di quattro colori (rosso, verde, blu e ultravioletto). Se il nostro cervello è in grado di prendere tre input primari e trasformarli in tutti i colori che percepiamo, potrebbe un po’ di esercizio mentale in più svelarci nuove tonalità?
Tenere d’occhio l’evoluzione
Gli occhi, così come li conosciamo e li apprezziamo oggi, hanno probabilmente iniziato il loro percorso evolutivo 800 milioni di anni fa in alcuni dei primi organismi terrestri. «Queste creature ancestrali vivevano nell’acqua, pertanto la capacità di riconoscere le fonti luminose, per distinguere il giorno dalla notte e sapere a che profondità si trovassero, rappresentava un vantaggio in termini di sopravvivenza», afferma Baden. Di conseguenza, l’evoluzione ha mutato un recettore della melatonina in una proteina opsina, che è diventata la base di quasi tutti i recettori della luce, conducendo alla comparsa, quasi 500 milioni di anni fa durante l’esplosione Cambriana, della retina nei vertebrati. Affascinato dall’evoluzione del sistema visivo classico dei vertebrati, Baden si è avvalso dell’imaging a due fotoni, dell’analisi computazionale e del lavoro sul campo con telecamere specializzate ed esposimetri per studiare il pesce zebra come un modello dei nostri primi antenati. «Il pesce zebra dispone di quattro recettori dei colori, noti come cellule cono: rosso, verde, blu e ultravioletto, ognuno dei quali con un ruolo distinto. Abbiamo scoperto che i coni rossi percepiscono la luce, quelli verdi e blu i colori, mentre quelli ultravioletti contribuiscono all’identificazione del cibo. Fondamentalmente, l’intera elaborazione della percezione dei colori si verifica nelle sinapsi di uscita dei fotorecettori, all’interno della retina stessa», spiega Baden.
Un prodotto della nostra percezione
La nostra disposizione visiva è in forte contrasto con quella del pesce zebra, i cui quattro coni retinici fungono da neuroni, ciascuno con proteine diverse sulla superficie cellulare, che rendono il compito di distinguere gli input della lunghezza d’onda diretto e, dunque, semplice. La retina dell’essere umano ha tre recettori per i colori, ognuno dei quali sensibili a diverse parti dello spettro luminoso. Un cono a lunghezza d’onda breve reagisce alla luce percepita come blu mentre, dei restanti due, un cono a lunghezza d’onda media «percepisce» il verde e un cono a lunghezza d’onda lunga «percepisce» il rosso.
Tuttavia, a differenza dei pesci zebra, questa è solo la prima fase della nostra percezione dei colori.
Mentre il cono retinico «blu» è diverso, gli altri due, ossia quello «verde» e quello «rosso», sono di fatto entrambi coni «rossi»: uno originale e un duplicato che, reagendo a una lunghezza d’onda leggermente differente, percepisce il verde. L’aspetto cruciale è però che, da un punto di vista evolutivo e molecolare, i due coni sono identici. «Pertanto, il circuito retinico non riesce a distinguerli e rinvia il problema al cervello. Il funzionamento di tale processo rimane un mistero, ma coinvolge probabilmente un tipo di algoritmo che si forma durante lo sviluppo neonatale», osserva Baden.
Le motivazioni cerebrali che ci impediscono di accrescere la nostra palette cromatica
Se la nostra percezione del colore è prodotta dalla decodifica dei segnali dei fotorecettori da parte del cervello, perché non è possibile apprendere, o far evolvere, l’elaborazione neurale per accrescere la nostra gamma cromatica, alla stregua dei software di fotoritocco per la manipolazione delle immagini digitali? «Quando il cervello mette a confronto i segnali di un cono per produrre la percezione dei colori, stima la lunghezza d’onda originale con approssimazione. A tal fine, i circuiti neurali devono sapere quali fotorecettori stanno ascoltando», afferma Baden. «Sono presenti davvero pochi segnali con cui lavorare, eppure i nostri grandi cervelli hanno imparato a farlo. Nel complesso, il cervello ha probabilmente sviluppato questo aspetto il più possibile e ora è programmato per lavorare con le attuali lunghezze d’onda dei nostri coni». Infine, persino gli algoritmi sofisticati sono limitati dai loro input, il che suggerisce che l’unico modo per accrescere la nostra gamma cromatica consisterebbe nel cambiare i nostri input retinici. Tuttavia, se l’evoluzione dovesse mai restituirci la nostra perduta vista ancestrale, consentendoci ad esempio di vedere l’ultravioletto, potremmo dover ricorrere a compromessi quali un maggiore rischio di cancro. Ciò che sorprende è che praticamente tutti i vertebrati moderni (pesci, anfibi, rettili e uccelli) hanno in realtà mantenuto la gamma completa dei recettori ancestrali dei colori. «Lungi dall’essere lo standard di riferimento della vista a colori, i mammiferi, noi compresi, rappresentano l’eccezione, probabilmente il risultato di tattiche di sopravvivenza che risalgono all’epoca dei dinosauri! La vera domanda non è in che modo potremmo vedere di più, ma in che modo riusciamo a vedere così tanto avendo così poco a disposizione», conclude Baden. Clicca qui per saperne di più sulla ricerca di Baden: Vedere il mondo attraverso gli occhi di un pesce
Parole chiave
NeuroVisEco, occhio, colore, retina, cellula cono, cervello, evoluzione, pesce zebra, lunghezza d’onda