Qual è il funzionamento del calcestruzzo autorigenerante?
Le politiche dell’UE sono sempre più orientate verso un’economia all’insegna di una maggiore circolarità, trainata da materiali, tecnologie, pratiche e comportamenti sostenibili. Gli sforzi tesi ad abbattere rifiuti inutili spesso menzionano le «cinque R»: rigettare, ridurre, riutilizzare (o riparare), riposizionare e riciclare, per raggiungere tale traguardo. Al momento, la riparazione di danni o il deterioramento delle infrastrutture fisiche, tra cui strade o edifici, implica la sostituzione dei materiali di costruzione originali. Di solito, questa pratica si dimostra non solo dispendiosa dal punto di vista economico e ambientale, ma può anche pregiudicare l’integrità e l’estetica delle strutture.
Esiste un’alternativa più ecologica?
Secondo Harbottle: «L’evoluzione ha conferito alle piante e agli animali una miriade di modi di guarire per conto proprio in caso di lesioni. Possiamo attingere molto dalla natura durante la progettazione dell’ambiente edificato.» Ad esempio, quando ci fratturiamo un osso, poco dopo i vasi sanguigni attorno alla frattura si contraggono formando un coagulo per impedire un ulteriore sanguinamento. Successivamente, il tessuto fibroso molle e le cartilagini iniziano a creare un materiale simile alle ossa denominato callo. Le nuove cellule ossee si sviluppano quindi su entrambi i lati della frattura, crescendo insieme e assorbendo il callo per creare un osso nuovo. Harbottle, lavorando presso l’Università di Cardiff, nel Regno Unito, ha partecipato a una serie di iniziative volte alla realizzazione di materiali da costruzione che sfruttano i processi biologici per preservare l’infrastruttura esistente, riducendo così interventi di manutenzione e nuove costruzioni. Nel corso del progetto GEOHEAL, finanziato dal programma di azioni Marie Skłodowska-Curie, Harbottle si è avvalso della capacità dei batteri di mineralizzare la calcite che, a sua volta, «ripara» i materiali naturali, tra cui il calcare e l’arenaria spesso utilizzati nel settore edile. Il batterio resistente impiegato, ossia Sporosarcina ureae, è seminato sotto forma di spore insieme alle sostanze nutritive necessarie. Durate la crescita, i batteri producono carbonato di calcio, che si indurisce in cristalli di calcite in grado di legarsi con il calcare e fare aderire insieme i grani di arenaria. «Grazie alla sua porosità, la muratura può ospitare vari microrganismi attivi; pertanto, è possibile applicare il trattamento tramite nebulizzatori, vernici o capsule inserite nei pori, riparando il materiale pur conservandone la capacità di “respirare”», spiega Harbottle. Harbottle ha inoltre scoperto che i batteri possono offrire una soluzione ciclica. Quando i batteri dormienti si miscelano alla pasta di malta, possono essere continuamente rianimati al momento della comparsa di crepe nella malta.
Come una fenice?
«I batteri creano una specie di tessuto cicatriziale. A seconda del materiale, si può stabilire con precisione quanto questo fenomeno si avvicini alla rigenerazione», afferma Harbottle. «Poiché il calcare è ricco di calcio e carbonato, è probabile che una parte della calcite di nuova formazione contenga minerali derivanti dal materiale originale “riorganizzati” dai batteri.» Harbottle sostiene che la riparazione risultante potrebbe assomigliare molto al materiale originale, riacquisendo le sue proprietà, tra cui resistenza e resilienza alle intemperie. Come evidenziato da Harbottle, l’autorigenerazione in quanto concetto è applicato diffusamente ad altri materiali, come ad esempio i polimeri e l’asfalto, nonché al calcestruzzo. «Credo che sia stata studiata anche nei metalli, sebbene senza ricorrere ai batteri, che invece si dimostrano più adatti ai materiali da costruzione dato che richiedono processi di produzione dei minerali», aggiunge Harbottle. Nonostante Harbottle non volesse allontanarsi troppo dal suo ambito di competenza, si è concesso uno sguardo al futuro potenziale dei materiali edili intelligenti. «Prima che un organismo possa autorigenerarsi, deve innanzitutto capire di essere ferito. Pertanto, le attività recenti svolte nel Regno Unito si sono dedicate all’individuazione di sistemi di rilevamento e attuazione, dotando i materiali della capacità di rilevare il deterioramento, di vagliare le opzioni e quindi di decidere come procedere senza alcun intervento umano», aggiunge. «In futuro, potrebbe essere possibile sviluppare sistemi autoriparanti interamente autonomi; tuttavia, dovranno prelevare i prodotti chimici e l’energia necessaria a creare un agente riparante dall’ambiente che li circonda.»
Perciò, quando saranno in grado di ripararsi da sole le strade principali?
Al momento, la soluzione trainata da batteri di Harbottle è alle prese con una serie di sfide. Una di queste riguarda l’approvvigionamento, poiché i batteri sono stati coltivati nel suo laboratorio, mentre per l’utilizzo capillare sarà necessario reperire batteri indigeni in grandi quantità, su cui condurre sperimentazioni prima dell’impiego. Un altro limite è la domanda. Il settore dell’edilizia assume una posizione giustamente conservatrice quando si tratta di materiali nuovi, alla luce di potenziali conseguenze di fallimento devastanti. Come puntualizza Harbottle, non ci sono solo rischi legati alla sicurezza, ma anche rischi estetici in caso di ristrutturazioni del patrimonio architettonico. «Per fare un gioco di parole, occorre costruire prove in una serie di strutture per conquistare la fiducia di utenti potenziali. Magari si potrebbero dapprima privilegiare gli ambienti non critici per la sicurezza o elementi decorativi non strutturali, quali lastricati e facciate», aggiunge Harbottle. Per saperne di più sulla ricerca condotta da Harbottle: Dalla bioingegneria arrivano materiali autorigeneranti per un’edilizia sostenibile e la preservazione intelligente del patrimonio architettonico
Parole chiave
GEOHEAL, infrastruttura, batteri, calcare, arenaria, edificio, autorigenerante, costruzione, riparazione