Comprendere l’ecosistema microbiotico delle mucche
L’anatomia dei ruminanti, gruppo di animali che comprende, tra gli altri, i bovini, è unica nel suo genere poiché permette di assimilare piante altrimenti indigeribili. Il primo stomaco, ad esempio, chiamato rumine, contiene numerosi microrganismi anche detti microbioma, che permettono all’animale di degradare la biomassa delle piante consumate e convertirla in energia. «Questa cooperazione tra una mucca e il suo microbioma si è evoluta nel corso di milioni di anni, fino a rendere l’animale dipendente dal microbioma per poter digerire il cibo», afferma Itzhak Mizrahi(si apre in una nuova finestra), professore presso l’Università Ben-Gurion del Negev(si apre in una nuova finestra). Mizrahi afferma che questo rapporto ha anche importanti ripercussioni sugli esseri umani. «È il microbioma stesso che permette a questi animali di convertire l’energia immagazzinata nelle piante in prodotti alimentari digeribili adatti al consumo umano, come la carne e il latte», aggiunge. Poiché questa relazione simbiotica tra mucche ed esseri umani è così efficace, il bestiame è diventato una delle forme di produzione alimentare dominanti. Ma questo rapporto comporta anche delle sfide. Ad esempio, il miliardo e mezzo di vacche presenti sul pianeta consuma circa il 20 % di tutte le colture coltivate e occupa circa il 30 % della massa terrestre totale della Terra. Per di più, il processo di degradazione delle fibre da parte dei microbi genera metano, un potente gas a effetto serra, che viene emesso nell’atmosfera. «Alcune sfide cruciali come i cambiamenti climatici, la tutela ambientale e la sicurezza alimentare sono tutte legate al rumine e al suo microbioma residente», spiega Mizrahi. «Perciò, più conosciamo il microbioma, più avremo la possibilità di aumentare la disponibilità alimentare e sviluppare bestiame che sia sostenibile per l’ambiente.» Con il sostegno del progetto RuMicroPlas project, finanziato dal Consiglio europeo della ricerca(si apre in una nuova finestra), Mizrahi sta guidando una squadra di ricercatori che si propone di raggiungere proprio questo obiettivo.
I plasmidi e l’ecosistema del rumine
Uno dei protagonisti principali del progetto sono i plasmidi, elementi genetici mobili presenti nelle cellule, in grado di replicarsi indipendentemente dai cromosomi. «Il nostro obiettivo era comprendere il ruolo dei plasmidi nell’ecosistema del rumine: come si sostengono in caso di una sua alterazione, come mutano nel tempo e se possono essere modificati o controllati», osserva Mizrahi. Cercando una risposta a questi interrogativi, i ricercatori hanno scoperto che esistono diversi ecosistemi di microbiomi persino tra le mucche di una stessa azienda agricola che seguono la medesima dieta. «Abbiamo scoperto che alcuni di questi ecosistemi trasferiscono meno energia all’animale ed emettono più metano, mentre altre comunità microbiche emettono meno metano e dirottano più energia alla mucca, permettendole di produrre più latte», spiega Mizrahi. I ricercatori credono che tale differenza sia dovuta al ruolo dei plasmidi. «I plasmidi trasportano grandi quantità di geni, ma non siamo certi di quanti ne codifichino esattamente», aggiunge Mizrahi.
Più energia, meno metano
Ciò di cui i ricercatori sono certi è che tali geni potrebbero essere modulati per influire sullo sviluppo dell’ecosistema del microbioma. «Un intervento del genere permetterebbe di produrre ecosistemi in grado di generare più energia e meno metano», conclude Mizrahi. «Sarebbe un passo importante verso l’aumento della sicurezza alimentare e la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra dannose, responsabili dei cambiamenti climatici.» Sapendo che tali modifiche sono attuabili, i ricercatori hanno ora concentrato l’attenzione sulla creazione di un ecosistema del microbioma più produttivo (e meno gassoso). Proprio questo è il cuore del progetto RuMinimum.
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